Da "il T, Quotidiano autonomo del Trentino Alto Adige / Südtirol" - 21 aprile 2023 - "L'uomo ha rimosso il lato selvatico: così l'orso fa paura".

 



Claudio Risé, psicoterapueta junghiano, ha a lungo indagato il rapporto (perso) con la Wilderness: "una grave dimenticanza". di Gianfranco Piccoli

Si può (ri)trovare un equilibrio nel rapporto tra uomo e orso? Secondo Claudio Risè non solo è possibile, ma necessario a fronte del processo di rimozione da parte dell'uomo di quel lato selvatico che è parte integrante di noi
esseri umani: «Gli animali popolano non solo la terra ma anche la nostra anima». Una rimozione – suggerisce - figlia del dominio esercitato dall'uomo sull'ambiente ma causa di nevrosi e patologie psicologiche: «Per progredire è
necessario un aggiornamento antropologico da parte della classe dirigente e dei cittadini».
Giornalista, scrittore, psicoterapeuta junghiano, Claudio Risè, 84 anni, vive tra Milano e Renon, in Alto Adige: è autore di numerose pubblicazioni che hanno indagato proprio il rapporto (perso) tra l'essere umano e l'aspetto
selvatico.

Risè, lei ha studiato a lungo la relazione tra uomo e selvatico. L'uomo, nella vita quotidiana, è perseverante nel portare avanti comportamenti rischiosi o addirittura pericolosi. Perché proprio l'orso suscita negli uomini sentimenti
di paura così forti?

- «È uno dei grandi problemi dell'umanità attuale, che si è costituita come padrona del mondo. Con gli animali eravamo coinquilini, esseri viventi che ci sono da quando ci siamo noi e per certi versi da prima. Noi ci siamo
moltiplicati, abbiamo organizzato le nostre comunità molto bene, con degli strumenti di potere in grado di controllare il territorio. Ma ci siamo pochissimo occupati (tra le molte cose di cui non ci siamo occupati) dell'aspetto selvatico, della wilderness, presente sulla terra».

Le conseguenze?

- «Il primo aspetto del conflitto con il selvatico è proprio questa rimozione, questo uomo così intelligente e potente che si è dimenticato che ci sono anche gli animali. Non solo sulla terra: sono anche coinquilini interiori, perché gli aspetti animali si riproducono tali e quali nella nostra psiche, dove troviamo cane, gatto, orso, lupo... Il nostro aspetto istintuale è legato e profondamente simile a quello animale, però la nostra cultura, la nostra “scienza” (come l'abbiamo chiamata da un certo punto in poi) si è dimenticata di approfondire questo territorio interiore».

C'è ancora spazio per il rapporto con il selvatico, si può tornare indietro?

- «Più che tornare indietro si deve andare avanti in modo equilibrato, recuperando una cosa importantissima a cui sono legati la nostra stessa vita e il nostro benessere, e naturalmente non mi riferisco agli orsi che ci aggrediscono: l'animale selvatico è una parte di noi che abbiamo rimosso. Gran parte delle patologie di oggi sono figlie di questa dimenticanza».

Cosa intende?

- «Tutti i problemi legati all'aggressività. Perché dobbiamo fare tutta questa fatica nelle relazione? Maschi con le donne, donne con i maschi, con i superiori, con i sottoposti... è una cosa completamente irrazionale. Siamo
portatori di luminose scienze e destini dell'umanità e poi siamo così incontrollati? Come mai? Gli animali è difficile che si aggrediscano all'interno della stessa specie, noi lo facciamo in continuazione: dobbiamo essere più
consapevoli. Non voglio fare apologia del mondo selvatico, sto solo presentando la debolezza del mondo umano. C'è una grande sopravvalutazione dell'uomo: in altri paesi, che magari noi riteniamo arretrati, il rapporto con il
selvatico è ritenuto fondamentale».

Un esempio?

- «In Sud Africa da diversi decenni ci sono scuole avanzatissime di formazione dirigenziale che per rilasciare i diplomi portano gli studenti per settimane nelle foreste vergini, dove cammini e vivi nelle grandi riserve con gli animali. E ti abitui a vederli e a dormire vicino a loro, in modo da convivere con questi aspetti forti, non solo dell'esistenza ma anche della psiche: se rimuovi l'animale, ti rimane la paura. Ti rimane una specie di nevrosi di voler battere l'animale o ignorarne l'esistenza, diventando fortissimo e occupando i territori: non ha senso».

Nella fiaba, l'orso viene spesso rappresentato in modo più positivo rispetto al lupo.

- «È abbastanza vero nella fiaba, ma non completamente dal punto di vista della realtà. I gruppi di lupi (che a differenza dell'orso, che è animale familiare, è una specie tribale) hanno una loro disciplina e organizzazione, per cui
è difficile che diventino pericolosi».

È venuta meno l'abitudine ad incontrare l'orso rispetto al passato?

- «Probabilmente neppure in passato c'era l'abitudine. La possibilità di incontrarlo è stata rimossa per il dominio che l'uomo ha creduto di avere sulla terra. Le scoperte scientifiche gli hanno assegnato questo grande potere, che però non rappresenta tutto e che non sempre lui usa nel migliore dei modi, soprattutto dal punto di vista istintuale, vedi la bomba atomica: grandioso ma molto rischioso».

Sta dicendo che ci preoccupa più l'orso della bomba atomica?

- «Appunto. Serve un salto di coscienza, non si può colpevolizzare l'orso con criteri di diritto penale. Se non ti tendi conto di questo, è pericoloso per la crescita psicologica dell'uomo, scambi un errore grave tuo per un atto proibito dell'altro che appartiene all'altra specie. Dal punto di vista culturale è una valutazione sbagliata che porta ad una regressione della psiche».

All'istinto spesso viene data un'accezione negativa.

- «Questo è un problema della modernità. L'istinto è parte centrale della psiche e dell'essere umano, non coltivarlo significa avere un grave handicap di fronte a certi pericoli».

Resta un problema (reale) di convivenza.

- «Certo, c'è il problema dell'organizzazione degli animali: ma perché ce lo poniamo solo oggi? Non possiamo pensare di risolverlo uccidendo l'animale omicida. Non è un passo avanti verso il recupero del rapporto con la
selvatichezza come modo di essere, ma dell'ignoranza su dove siamo».

L'uomo ad un certo punto, però, ha sterminato l'orso sulle Alpi e l'antropizzazione ha fatto il resto.

- «Noi siamo uomini, sappiamo che c'è il tempo e ci si trova in posizioni diverse. L'uomo è soggetto attivo dell'antropizzazione e se ne deve assumere la responsabilità».

Serve un punto di equilibrio, non crede?

- «Assolutamente sì. Non dico: “Lasciamo che arrivino orsi a centinaia”. Per affrontare il problema dobbiamo sapere dove nasce e quali sono le responsabilità nostre e delle istituzioni. Ci vuole un aggiornamento della nostra cultura antropologica, il che significa integrare nel discorso politico e amministrativo concetti che l'antropologia e le scienze antropologiche spiegano da almeno un secolo. Aggiorniamo la cultura dei nostri dirigenti e di tutti noi in modo da poter vivere più semplicemente e tranquillamente il nostro pianeta».

Forse si poteva gestire meglio la reintroduzione?

- «Il fatto stesso che siamo qui a parlarne e facendo delle riflessioni elementari, ci dice che è un problema che non è stato affrontato. Se facciamo un pensiero su quanto ci occupiamo dei consumi, per esempio delle scarpe per fare sport, ci rendiamo conto dello squilibrio della nostra società. Ci concentriamo sugli oggetti, ma non sull'ambiente in cui viviamo».