L’ansia è un moderno strumento di controllo - Il Timone, settembre 2022

È il male dei «tempi moderni» che, espulso Dio dalla vita dopo averlo ridotto a optional, sta ora mettendo a repentaglio l’umanità. Parla lo psicanalista Claudio Risé.
di Giulia Tanel

Cuore che batte all’impazzata, sudorazione, insonnia, nervosismo... sono solo alcune delle manifestazioni dell’ansia, che può essere sì una condizione passeggera, ma che sempre più spesso si connota invece quale vero e proprio disturbo patologico. E l’ansia non è solo dentro le persone, è anche fuori, nella società. È il male «dei tempi moderni», ha affermato al Timone Claudio Risé, classe 1939, psicanalista, accademico e scrittore di fama, noto soprattutto per i suoi libri sul maschile e sul paterno, tra i quali ricordiamo solamente Il maschio selvatico 1 e 2 (2002 e 2015), Il padre, l’assente inaccettabile (2003) e il recentissimo Il ritorno del padre (2022).

Dottor Risé, l’ansia è il male del nostro secolo?

«Non solo del nostro secolo, ma anche, più in generale, dei tempi moderni, nel senso chapliniano del termine. Quelli segnati cioè dal processo di industrializzazione, con il suo graduale allontanamento dalla natura e dai rapporti più direttamente umani e personali e della loro sostituzione con tecniche e codici collettivi sempre più impersonali, trasmessi attraverso macchine dal cui possesso e segnalazione dipende l’esistenza.
Ciò crea ansia perché siamo umani, mentre in questo sviluppo prevalentemente tecnico e meccanico lo spazio specificatamente umano, con la sua libertà, è sempre più ristretto, nel suo prodursi come nel suo trasmettersi.
I modi e le forme di questo sviluppo sono del tutto indifferenti e impermeabili verso la persona umana, unica e irripetibile. È del tutto normale che l’annullamento dell’umano reso obbligatorio in questa fase della tarda modernità crei malesseri, che si esprimono anche con l’ansia».

La società odierna, con i suoi ritmi frenetici affiancati all’insistenza sulla prestazione, quale incidenza ha sul fenomeno dell’ansia?

«La frenesia nei ritmi è una delle forme risultanti del deragliamento al di fuori dall’umano del modello di sviluppo contemporaneo, tutto centrato su obiettivi e strumenti estranei alla natura, e all’umanità. Il tempo umano è quello della natura creata, in cui l’uomo vive, suo ospite per volontà divina. Se questo aspetto viene dimenticato o ideologicamente rimosso, salta anche il rapporto col tempo perché si perde il senso della pausa, l’arresto, la contemplazione, la ricerca vigilante aperta, l’ascolto: la pausa ci nutre. La successiva caduta nelle varie forme di paranoia e delirio è pressoché fatale. Il materialismo produttivistico, scrive Byung-Chul Han in L’espulsione dell’Altro, “frammenta il tempo della vita per aumentare le produttività… ma questa politica del tempo genera angoscia e insicurezza”. Insomma, ansia».

Ultimamente viviamo poi anche in una continua condizione di “stato di emergenza”… c’è qualcuno che soffia sul fuoco?

«Rispetto all’uso attuale dello “stato di emergenza” sono pienamente d’accordo con il profondo pensiero filosofico e sociale, a cominciare da Giorgio Agamben, che lo considera lo strumento di controllo più usato dagli Stati che vogliono mantenere un’immagine democratica, ma sono sostanzialmente delle costruzioni autoritarie di massa».

L’ansia come influenza i rapporti con le persone?

«Li avvelena, intossicandoli. In realtà tende a eliminare le persone: sono un impiccio al delirio di affermazione e onnipotenza dell’Ego, centro della vita umana dopo l’abolizione di Dio. Una caratteristica del moderno, come rileva del resto molto pensiero filosofico, come appunto oggi ricorda C. Han, nelle sue conferenze e libri sull’Altro e la sua scomparsa. L’altro è un ingombro inaccettabile, perché smentisce l’onnipotenza paranoide dell’uomo moderno».

E il rapporto con Dio?

«Ancora di più, appunto perché è il primo Altro, il creatore di tutto il resto. Così facendo, però, smentisce l’onnipotenza dell’uomo e delle sue tecniche, molte delle quali hanno nutrito gli aspetti paranoidi del progresso tecnico, da Prometeo in poi. Il processo di secolarizzazione, poi, è stato tutto un ansioso strapparsi all’abbraccio del Signore; un processo che può diventare ricco e illuminante solo quando cedi, come san Paolo, e vivi la fecondità della sconfitta e della perdita, scoprendo la bellezza del contrario della grandiosità: il limite e la piccolezza. La modernità, però (come ci mostra anche la cronaca quotidiana), è finora tutta un delirio sulla guerra all’altro e la fatale vittoria finale, che per adesso è stata soprattutto una drammatica sconfitta dell’uomo, la moltiplicazione delle sue sofferenze. Un disastro epocale, appunto, nel senso letterale della parola, perché si è già inghiottito più di tre secoli di vite umane».

Ansia dunque per l’assenza di Dio. Ma anche ansia per l’assenza di norme, di regole…

«Di autorità. Che viene svalutata dimenticando che l’auctoritas, a cominciare da quella del padre, figura centrale nel processo educativo, assieme alla madre, viene dal verbo augeo, “faccio crescere”. Lo sviluppo è un processo costruttivo, necessariamente poi aperto alla trasformazione. Senza regole però, senza discipline che consentano l’identificazione degli obiettivi personali, c’è il caos e la delusione depressiva».

Anche i bambini e i giovani oggi spesso manifestano uno stato d’ansia. Si potrebbe dire essere anche questo un sintomo della mancanza del paterno, portatore delle norme e immagine del Padre con la P maiuscola? 

«Come ricordo anche in Il ritorno del padre, citando l’Amoris laetitia di papa Francesco, il padre è figura di orientamento, colui che indica il senso, il significato e la direzione del percorso della vita. L’indebolimento della sua figura e della famiglia naturale crea disorientamento, ansia, e gravi malesseri nei giovani. La diffusione della sindrome di iperattività e mancanza di concentrazione è legata a questo contesto antropologico».

Se dovesse sintetizzare la radice ultima dell’ansia, cosa indicherebbe?

«Appunto il processo di secolarizzazione, il tentativo di espellere Dio dalla vita e dal mondo umano, facendone un optional di cui si può fare a meno, come se ciò fosse possibile. Si tratta di una spinta che ha anche aspetti positivi e vitali, di riconoscimento della grandezza dell’umano e della conseguente direzione verso l’assunzione di responsabilità personale nella propria vita. Perché tuttavia l’uomo non venga inflazionato, o annichilito dall’incontro con Dio, immagine di totalità, è necessario che non venga ostacolato nella scoperta della bellezza della sua piccolezza, misteriosamente accompagnata dall’amore. Come ci ha spiegato (oltre a san Paolo) Simone Weil, una donna che aveva capito perfettamente la modernità, con i suoi rischi e le sue follie».

Detto ciò, è possibile vivere oggi con meno ansia?

«Sì, ma dobbiamo diventare più umili. Si tratta di riscoprire la bellezza del mondo vivente (compresi gli altri esseri umani), che abbiamo trasformato in oggetto di predazione, sostituendo l’amore con lo sfruttamento, per ora principale motore della società occidentale, in tutti i suoi rapporti, compresi quelli “sentimentali”, spesso lontani dai sentimenti. Dobbiamo, semplicemente, tornare a essere umani. E, come afferma lo scienziato Pierre Teilhard de Chardin ne La messa sul mondo, uscendo dalle complicazioni delle pseudo-scienze, necessariamente fallaci, chiedere “al Signore di guidare il nostro sguardo fino a farci scoprire l’immensa semplicità delle cose”».