L’ossessione di piacere, lo sguardo fisso su se stessi, lo schiacciamento sull’attimo fuggente. L’era del reality show è l’auge del narcisismo. Ma uno psicanalista dice che la felicità è altrove.
Chiede severa la giornalista di Glamour alla giovane attrice: «Quanto ti ami?». E lei, zelante: «Se mi autoconvinco ripetendo a me stessa prima di addormentarmi: devi volerti bene, il giorno dopo sto decisamente meglio con me stessa. Se non me lo impongo, mi amo poco». Da cui si evince che il Sollen collettivo del piacersi, stimarsi, “bastarsi” in un’autarchia affettiva, è ferrea disciplina e quasi autoipnosi. Se uno si distrae un attimo la sera prima di dormire, il giorno dopo si vede com’è – e sono dispiaceri. Ma al conformismo degli imperativi morali dei tabloid si è abituati, nulla di nuovo. Di nuovo invece c’è un saggio dello psicoanalista Claudio Risé, Felicità è donarsi (Sperling edizioni), appena uscito in libreria, con un sottotitolo audace: “Contro la cultura del narcisismo e per la scoperta dell’altro”. Come una lancia spezzata addosso al «rumoroso coro che incita a occuparsi sempre dello stesso esploratissimo pianeta: il proprio Ego, la sua immagine, le sue ansie e velleità. Siccome l’individuo avverte di non sentirsi benissimo, gli si consiglia di occuparsi sempre più di sé, dei suoi malesseri, del suo io malmostoso. E così il poveretto sta sempre peggio». Mentre, scrive Risé, chi si rifugia nel culto di sé dovrebbe capire che così «tiene lontano il mondo del dono autentico. Questo avvenimento, aprendo la propria vita all’altro, rompendo il monopolio dell’Ego per lasciare entrare un Tu, produrrebbe un cambiamento, anzi un mondo intero di cambiamenti». (Tra parentesi, Risé cita numerose volte Luigi Giussani). Certo, il piccolo volume di Risé sembra una vox clamantis in deserto nell’auge del narcisismo collettivo. Ciascuno esibisce ciò che può: le ragazzine il bordo degli slip sopra i jeans a vita bassa, le aspiranti veline ogni sera su Canale 5 le mosse, lo si capisce, lungamente studiate davanti allo specchio. Le bambine di dieci anni ballano davanti allo schermo sognandosi a loro volta veline, sotto gli occhi inorriditi delle madri ex femministe. Il presidente del Consiglio mostra il suo lifting fra i sarcasmi della sinistra, che pure cerca di lisciarsi le rughe, ma con i rimedi naturali, cioè fanghi e infusi – del tutto inefficaci, però biologici e “puri”. Per regolare le selezioni dei reality show ci vogliono gli autoblindo. Anche chi viene sbattuto fuori subito un po’ di soldi fra serate in discoteca e Tv locali li raccatta. Apparire è un mestiere, oltre che un inconfessato sogno: essere riconosciuto dalla cassiera, all’Esselunga. Uscire dal nulla. E chi proprio da mostrare non ha nulla arriva a mettere la varechina nell’acqua minerale: un alto numero dei casi di “acquabomber” si sono rivelati manipolazioni di soggetti ansiosi di finire, almeno come vittime, in Tv. Sembra giunto al suo culmine – forse alla dilatazione estrema che nel cosmo precede le implosioni? – quel narcisismo di massa che il sociologo americano Christopher Lasch descrisse nel 1979 in un saggio divenuto famoso, La cultura del narcisismo. Dove si fotografava l’albore della fuga dal sociale, e l’ossessione circa il proprio stato psichico: «Aderire alle proprie sensazioni, nutrirsi con cibi genuini, prender lezioni di danza del ventre, bagnarsi nel mare della saggezza orientale, fare del jogging, imparare a “entrare in rapporto”, e a “vincere la paura del piacere”». è il catechismo che da 15 anni i femminili e i nuovi “maschili” sciroppano: hanno plasmato una generazione. Ma l’allontanamento dal sociale e il ripiegamento sulle proprie sensazioni, scriveva Lasch, comportavano più profondamente un «vivere per il presente come ossessione dominante – vivere per noi stessi, non per i predecessori o per i posteri. Perdendo il senso della continuità storica, il senso di una appartenenza a una successione di generazioni che affonda le sue radici nel passato e si proietta nel futuro». (E sarà un caso, se tutte queste energie spese a piacersi, a piacere, a guardarsi, coincidono con i più bassi tassi di fecondità mai registrati in Occidente? Pochi bambini e tanti cani nei quartieri bene. I cani adorano, non crescono, non giudicano – a differenza dei figli). Il saggio di Lasch è profetico quando scrive – anno 1979 – della popolarità dello stile confessionale che testimonia un nuovo narcisismo della letteratura americana, a fare inizio da Norman Mailer. «Invece di rielaborare i propri ricordi, molti autori giocano sulla mera autoconfessione per mantenere vivo l’interesse del lettore, sollecitando la sua morbosa curiosità per la vita privata delle persone famose». Dove pare di vedere l’origine dei reality show: la scoperta che l’esibizione narcisista del “privato”, meglio se scabroso, paga più e meglio della fatica di una sceneggiatura. In effetti, ad oggi l’audience per i reality è tale da incoraggiare qualsiasi esperimento. Non meno di 10 milioni di italiani guardavano stabilmente il “Grande Fratello 4”, ma anche i vari succedanei hanno funzionato. Perché? Per Roberto Levi, critico televisivo del Giornale, il reality con la sua ripetività svolge «una funzione di supplenza affettiva» nelle ampie solitudini delle nostre città. Il che, se fosse vero, significherebbe una silenziosa domanda di compagnia da parte di milioni di spettatori. Tuttavia, si può fare un’altra ipotesi: che l’identificazione con gente comune, uscita dall’anonimato senza meriti particolari, alimenti la difficoltà collettiva ad accettare la semplice normalità della vita, l’insofferenza verso quella routine di ritmi e doveri cui la “massa” è soggetta. Di fatto, i reality si moltiplicano e anche le versioni più ruspanti rendono. Odeon Tv ha chiuso in una villetta della Bassa milanese una decina di prosperose e disinvolte signore. Niente diretta, fanno orari d’ufficio, 11-20, ma si va in onda a mezzanotte. Aria da casa chiusa, scarso il dialogo, nulle le spese per i costumi, ma proprio per questo è un successo. L’unico reality show che non ce l’ha fatta invece si chiamava “Supersenior” (Raitre) e metteva in scena gli ultrasessantenni. Risultato, un’audience da disastro. Nei vecchi, non vuole identificarsi nessuno. «La vecchiaia è l’evento che l’opinione pubblica segue con particolare sgomento – scrive Claudio Risé –. Il suo arrivo e sviluppo, fino alla morte, è la peggiore smentita della società del narcisismo». In questa società – e cita Georges Bataille – «ognuno di noi è confitto in un angusto isolamento. L’unico limite radicale a questa fondativa solitudine è la morte, la sola grave smentita che l’illusione incontra, dal momento che se io muoio il mondo cessa di essere riconducibile a me. Tutto mi diceva che a contare ero solo io, ma la morte mi avverte che è una menzogna».
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