Felicità è donarsi - Di Francesco Demattè, da Il Secolo d'Italia, 30 giugno 2004
Era il 1925 quando il sociologo ed etnologo francese Marcel Mauss pubblicava il celebre Saggio sul dono, opera che nei decenni successivi tanta parte ebbe nel porre le basi per una nuova e originale critica del nostro tempo, dominato dalla ragione utilitaria. Nei primi anni Ottanta, poi, con felice intuizione fu fondato, sempre in Francia e ad opera, fra gli altri, di Alain Caillé e Serge Latouche, il Movimento Anti Utilitarista nelle Scienze Sociali, il cui acronimo – MAUSS – rende omaggio proprio all’autore del Saggio. Non è naturalmente per mero sfoggio di erudizione che ricordiamo questi fatti, ma perché - come qualcuno dei nostri lettori rammenterà - nei primi anni Novanta vi fu un proficuo incontro tra il MAUSS e la Nouvelle Droite transalpina e, in particolare, fra Alain Caillè e Alain de Benoist. L’eco di questo interessante dibattito giunse anche in Italia grazie a Marco Tarchi, che fece pubblicare sulla rivista Diorama Letterario un’ampia messe degli interventi degli autori transalpini. L’orizzonte culturale nel quale si poneva tale confronto era quello della possibilità, ed urgenza, di andare al di là delle vecchie categorie di Destra e Sinistra attraverso la critica antiutilitaristica del paradigma economicistico. Non staremo qui, ora, a discutere - ancora una volta … - su tale problema, perché riteniamo, forse a causa del nostro essere un po’ démodé, che il vecchio e talora usurato concetto di Destra sia ancora pienamente utilizzabile. Sempre che per Destra si intenda non il vecchio e polveroso conservatorismo macchiato di reazionarismo, quanto, al contrario, una lucida e radicale opposizione alla modernità. E allora, se lo stesso Serge Latouche sostiene che “l’antiutilitarismo è difficilmente dissociabile da una critica della modernità”, senza tentennamenti si ha da affermare che la critica alla ragione utilitaria può, e soprattutto deve, essere mossa da Destra.
Tali considerazioni hanno cominciato a frullare nella nostra testa leggendo il bel libro che Claudio Risè, nome certamente ben noto ai nostri lettori, ha dedicato al dono (Felicità è donarsi. Contro la cultura del narcisismo e per la scoperta dell’altro, Sperling & Kupfer, Milano 2004). Risè è un personaggio difficilmente inquadrabile nel vetusto panorama culturale italico. Sarebbe riduttivo definirlo solamente psicanalista o docente universitario, come egli viene presentato nelle note biografiche che accompagnano il volume. Anzi, questi sono, forse, gli aspetti più ‘normali’ e ‘trascurabili’ della sua attività e della sua personalità. Sicuramente più interessante, e intrigante, ci appare, per esempio, la ormai pluriennale ricerca sulle figure del maschio e del padre, e sulla loro crisi, nella società contemporanea. Ricerca che ha sollevato in più di una occasione l’indignazione di chi vedeva in essa la riproposizione sotto nuova forma del vecchio maschilismo. Naturalmente non era vero. Risè percorre una sua via, rifuggendo dai conformismi e dal politicamente corretto di casa nostra, abbattendo uno dei tanti tabù del nostro tempo. Cosa che realizza anche con questa sua ultima fatica, la quale, tutta incentrata, come anticipavamo, sulla bellezza e positività del dono, apre pure improvvisi scorci sulla sua vita. Potremmo infatti definire Felicità è donarsi come una sorta di autobiografia attraverso il dono o, anche, una riflessione sul dono che trapela dalle pieghe di una esistenza. In effetti tale è il lavoro di Risè: la narrazione della ricchezza e della naturalità del donarsi quale si svela soprattutto agli albori di una vita. Tale narrazione, tuttavia, non è affatto impregnata del dolciastro buonismo imperante, intriso di debolismo e nichilismo e, quindi, di assenza del divino. Per Risè, al contrario, il dono datore di felicità è un’esperienza forte, in radicale contrasto con “lo stile della narrazione debole, della vita umana come commedia, a cui nessun Dio presiede e dalla quale nessun Dio è visibile”. Gli è che il Nostro Autore individua correttamente nel sacro la sorgente del dono e, quindi, della felicità. Il sacro, fonte del dono, come recita il titolo di uno dei capitoli del libro. Esso rappresenta infatti “il mondo dell’eccedenza, della sovrabbondanza, dove regna non il trattenimento e il risparmio ma, appunto, il dono”. E l’esperienza nella quale, nel corso della nostra esistenza, noi esperiamo il senso del sacro è quella religiosa. Dono, felicità, sacro, religione sono pertanto come intimamente connessi. E non è un caso che proprio nel capitolo dedicato al rapporto tra il sacro e il dono sia descritto l’incontro, riteniamo determinante nella vita di Risè, con il giovane don Luigi Giussani. Il futuro fondatore di Comunione e Liberazione fu infatti il suo insegnante di religione al Liceo Berchet di Milano. E gli aperse la mente – o, meglio, il cuore … - alla comprensione del cristianesimo come dono.
Il lettore avrà sicuramente notato che l’itinerario di Risè, il quale, partendo dalle sue esperienze prima adolescenziali, poi giovanili e infine mature, elabora una grammatica del dono in cui felicità, sacro e religione costituiscono elementi imprescindibili di un tutto, si configura pure come una esplicita critica del nostro tempo o, se vogliamo usare il linguaggio dell’Autore, della postmodernità o della tarda modernità. In essa, infatti, dominano il calcolo e l’utilitarismo, l’egoismo e il culto di sé, la misura e la penuria. Situazioni, queste, le quali, non consentendo la solare pienezza del dono, determinano le tipiche patologie che infieriscono sull’umanità occidentale. Patologie che si possono riassumere in due atteggiamenti emergenti oggi con preoccupante frequenza: la nevrosi ossessiva e il narcisismo, ben presenti, fra l’altro, in una delle figure centrali dell’Illuminismo europeo, Jean Jacques Rousseau.
Ma vi è un altro tratto tipico del mondo moderno (e postmoderno) che si oppone radicalmente a ogni possibilità che si instauri oggi una mentalità favorevole al dono: l’isolamento e la separatezza dell’uomo contemporaneo dai suoi simili. E’ infatti “la frammentazione della nostra società in tanti individui separati e in concorrenza fra loro, così come il suo disinteresse per il passato comune, a creare la situazione più propizia all’isolamento dell’individuo, e allo sviluppo della malattia ossessiva”. Al contrario, ‘frammentazione’, ‘isolamento’, ‘individuo’ sono tutti termini e concetti che non hanno cittadinanza all’interno di una comunità, cerchia ove gli uomini cooperano fra di loro donandosi reciprocamente conoscenze e abilità. La parola latina communitas, da cui l’italiano comunità, è composta infatti da cum e munus, con il dono, cioè. Una comunità che è, tradizionalmente, legame nel tempo e nello spazio. Nel tempo più ancora che nello spazio, perché è nella storia, nella complessità e nelle contraddizioni della storia, che si costruisce faticosamente l’identità di una comunità. Se, al contrario, vengono privati del dono del passato – perché anche il passato è un dono, da conservare con cura -, delle loro radici, gli uomini si ammalano. Risé cita a questo proposito una meditazione di Simone Weil che ci piace riportare qui a conclusione del nostro discorso: “Una comunità … con la sua durata, penetra già nell’avvenire. Contiene nutrimento non solo per le anime dei vivi, ma anche per quegli esseri non ancora nati che verranno al mondo nei secoli futuri. Costituisce l’unico organo di conservazione per i tesori spirituali accumulati dai morti, l’unico organo di trasmissione mediante il quale i morti possono parlare ai vivi”.
Da una analisi del dono intrisa di autobiografismo, Claudio Risè è pertanto riuscito con levità e delicatezza ad elevarsi a una riflessione generale sulla patologia della civiltà moderna (e tardo moderna) in un libro che, al contempo profondo e piacevole alla lettura, contribuisce anch’esso, sulla scia delle analisi del MAUSS e della Nouvelle Droite ricordate in apertura di articolo, a proporre un ulteriore ed efficace antidoto ai veleni del nostro tempo caotico e dissolutore.