Se la felicità è donare se stessi - Di Riccardo Paradisi, da L’Indipendente, 19 giugno 2004
Si sta bene quando l'io si apre al mondo e si dona. Si sta male quando ci si raggomitola su noi stessi nella ossessiva difesa del nostro presunto benessere.
Lo dice Claudio Risé in Felicità è donarsi, il libro della maturità di uno studioso il cui percorso esistenziale è tutt'uno con quello intellettuale.
Risé parla di se stesso, come non aveva mai fatto nei suoi lavori precedenti (Il maschio selvatico, Parsifai, L'ombra del potere, Essere uomini): e lo fa col distacco e l'impersonalità di chi, ormai, può rinunciare al suo ego. Parla di sé come di un altro, con severità e comprensione. in fondo sono poche le strade da percorrere: la persuasione o la retorica, l'individuazione del sé o l'autoinganno.
Tanto più che “il programma libidico e simbolico dell'essere umano è il donarsi. Il sapere viene accumulato per poter poi essere trasmesso, donato”. È innaturale invece “rinchiudersi nella prigione claustrofobica dell'accumulo, del calcolo”.
Prigione dove regna la paura dell'intimità con l'altro e la pretesa miserabile di un'autarchia affettiva che non presta orecchio ai segnali della vita e al propri desideri profondi. Segnali che Risé scorge anche nella vecchiaia, nel dolore e nella morte: gli dei che il cervello e la tarda modernità rifiutano, ma l'anima consapevole accoglie.