Prigionieri di un io narciso - Di Anna Maria Battistin, Io Donna, 29 maggio 2004
Fuori, la maschera della seduzione. Dentro, il tarlo dell’impotenza. Eppure, secondo l’analista Claudio Risé dalla gabbia dell’egocentrismo moderno si può uscire. Con il coraggio della relazione. E l’esperienza del dono.
Io, io, e ancora io: difficile uscire dal girone egocentrico del narcisismo, dove tutto ruota attorno a se stessi. E aprirsi agli altri in una relazione che non sia solo predatoria e superficiale, senza un vero coinvolgimento emotivo. Anche quando si tratta di rapporti di amicizia o di amore non si abbattono mai le difese, a cominciare da quella migliore, l’attacco. Perché, come diceva Sartre, nell’universo persecutorio del narcisista “l’inferno sono gli altri”: potenziali e insidiosi nemici che riflettono, come in uno specchio scuro l’altra faccia del Narciso postmoderno. E’ in questo volto nascosto tra le ombre dell’inconscio che si condensano i tratti più negativi e meno conosciuti del narcisismo, sia individuale che sociale, all’insegna dei sentimenti infantili più arcaici – invidia, rabbia, distruttività – da cui ci si difende proiettandoli sugli altri.
Di sé, il narcisista, offre invece il lato migliore: quel lato brillante, fascinoso, seduttivo che siamo abituati a vedere in tanti personaggi di successo. E che ritroviamo, in tono minore anche in molti di noi, come una maschera che ci si può togliere solo in solitudine. E’ allora che il narcisista sprofonda nel proprio inferno personale, sempre in bilico fra due poli opposti, il tutto e il niente. Al senso di onnipotenza di cui si nutre l’idea grandiosa di sé si contrappone un sentimento di futilità, di autosvalutazione e di impotenza. Al culto del corpo, della giovinezza, della bellezza, il terrore della vecchiaia e della morte. Al mito del successo, l’ansia della competitività e la paura del fallimento. Ma anche un senso di estraniamento che toglie significato e piacere a quello che si fa anche quando si raggiungono le mete più ambite. «Elementi che si ritrovano, amplificati a livello collettivo, nella “cultura del narcisismo” in cui siamo immersi: una cultura che accentua le derive più negative di questo aspetto della personalità, presente in ciascuno di noi a dosi più io meno massicce» dice lo psicoanalista Claudio Risé, che nel suo ultimo libroFelicità è donarsi(Sperling & Kupfer) ha scritto un pamphlet “contro la cultura del narcisismo e per la scoperta dell’altro”.
In una società dominata dalla “cultura del narcisismo” stiamo diventando tutti un po’ Narcisi. Qual è la manifestazione più evidente?
«Oggi l’Ego diventa specchio del mondo e il tono affettivo si muove perennemente fra euforia e depressione. Questo si riscontra anche dal punto di vista clinico. Il narcisista passa da momenti di esaltazione a momenti di depressione, non più improntata al senso di colpa edipico come avveniva nelle nevrosi classiche, ma all’angoscia di disgregazione: un sentimento legato alle prime fasi dello sviluppo psichico e al legame con la madre, non percepita ancora come essere separato ma come parte di sé. Di qui la tendenza all’”incorporamento”, alla fusione con l’altro che si alterna all’aureo isolamento narcisistico e alla distanza invalicabile posta fra sé e gli altri. Ma in entrambi i casi la relazione è assente: perché non esiste quello scambio emotivo che dà valore al rapporto con gli altri».
Che cosa fa precipitare il narcisista nella depressione?
«Il senso di delusione rispetto alle fantasie di grandezza, un ideale destinato a crollare di fronte a un fallimento. Ma la depressione non risparmia neppure chi ha successo. Se non si accompagna ad un’esperienza di comunicazione autentica, il successo non soddisfa. Per questo anche l’ammirazione degli altri lascia indifferenti: non è un dono prezioso da conservare, ma qualcosa di effimero di cui ci si compiace e poi svanisce. Chiuso nella sua torre d’avorio, il narcisista non può contemplare sé stesso senza accorgersi di essere prigioniero di un mondo asfittico in cui le sue energie si esauriscono, pietrificate dall’assenza di quella linfa vitale che è un autentico scambio con il mondo».
Anche la tendenza a erotizzare tutto, dalla pubblicità al modo seduttivo di rapportarsi agli altri, fa parte della “cultura del narcisismo”. E come vivono l’Eros i nuovi Narcisi?
«L’Eros si perde nella contemplazione di sé. Una forma di autoerotismo estesa anche al rapporto con gli altri: si tende a erotizzare anche le esperienze più banali, attingendo alle proprie capacità seduttive. Ma rimanendo chiusi nella propria corazza, ben difesi dalle frecce di Eros. E di quella sessualità che Freud chiamava “genitale”. Il passaggio dalla fase pre-edipica (caratterizzata da pulsioni orali e genitali) alla fase genitale corrisponde al passaggio ala capacità di donare, in un rapporto che si apre all’altro. L’Eros narcisista si muove invece entro gli orizzonti di quella sessualità infantile definita “perversa polimorfa”. Centrata su se stessa».
Nel mito di Narciso la pulsione di morte trionfa su quella della vita.
«Privo della sua gratuità, l’Eros non viene vissuto come una pulsione verso la felicità. E acquista spesso un volto mortifero. L’altro è visto come un “oggetto parziale” da sedurre e incorporare. E da cui trarre soddisfazioni parziali. Proprio il mancato riconoscimento dell’altro apre la strada a comportamenti perversi, che simulano la morte attraverso piccole crudeltà, traendo piacere dalla sofferenza altrui. Una simulazione che a volte si trasforma in tragica realtà, come nei casi di pratiche sadomaso, pedofilia o stupro».
Che cosa rende così difficile per il narcisista uscire dalla sua gabbia dorata?
«La viltà. Il Narciso postmoderno ha paura di confrontarsi con l’altro. Lo si vede anche in analisi, dalle resistenze che oppone a qualsiasi forma di transfert: solo molto parzialmente si apre alla relazione. Non importa se è una persona audace, che non arretra di fronte a comportamenti autodistruttivi: anche droga, promiscuità sessuale a rischio, giochi estremi fanno parte della sfida narcisistica alla morte, all’insegna del senso di onnipotenza.
Quello che manca è il coraggio della relazione. Per essere audaci in questo campo è necessaria un’intenzionalità generosa che porta a mettere a rischio se stessi, le proprie energie, i sentimenti, a gettarsi nella relazione pronti ad accogliere il dono dell’altro, ma anche il suo possibile rifiuto e la sofferenza che ne deriva».
Il coraggio non si inventa.
«Ma si può trovare. Magari attraverso uno di quegli incontri apparentemente casuali. Che creano una breccia nella corazza narcisistica, attraverso la capacità di donare. Quello che mi affascina nell’esperienza del dono, anche dal punto di vista terapeutico, è l’effetto liberatorio che può avere sul Narciso contemporaneo, inducendolo ad uscire dalla sua prigione claustrofobica per andare verso l’altro. Non più con l’intenzione di omologarlo a sé, ma di amarlo nella sua diversità. Con l’audacia di chi va alla scoperta. Solo quando si abbassano le difese e ci si mette in gioco alla pari ci si accorge che l’altro esiste. E può colmarci incessantemente di doni che viene spontaneo ricambiare. Con gratitudine».