Che la cannabis non sia nociva è una leggenda. Recensione di Emanuele Boffi, da “Il Foglio”, 2 giugno 2007

Che la cannabis non sia nociva è una leggenda. E il colore di questo mito è il rosa. Lo psicologo Claudio Risé ha messo corpo e cervello al servizio di un’impresa titanica: mostrare il nero del tetraidrocannabinolo che rimane sotto le unghie dopo aver grattato via il rosa di un mito indiscusso degli anni Settanta. Opera impervia perché “la cannabis gode di un consenso culturale molto più solido di Garibaldi. Non si può parlarne male”. Da buona favola, anche quella dell’innocente cannabis, ha le sue fondamenta in uno stato emotivo, non su elementi di fatto. Dati e numeri che Risé snocciola andando a formare come un lungo elenco di caveat, volti a smontare l’idea che esistano oggi studi scientifici che attestino per questa droga una leggerezza innocua. Solo l’anno scorso, rispondendo a un lettore dell’Unità che chiedeva lumi, lo psichiatra Luigi Cancrini rimandava a “uno studio compiuto nel 1910 dal Servizio Sanitario inglese in India”. Risé elenca gli studi più aggiornati, facendo maliziosamente notare come ormai in tutto il mondo – tranne che in Italia – siano state condotte serie campagne d’informazione. E’ accaduto nella liberale Svizzera, che aveva inaugurato una politica di apertura alla droga, ma che “oggi ne rifiuta la depenalizzazione”. E’ accaduto negli Stati Uniti dove il New York Times ha regalato agli insegnanti “uno straordinario opuscolo di 60 pagine che non nasconde nulla degli accertati rischi di malattie mentali e alterazioni caratteriali che la cannabis porta con sé”. E dove nell’ottobre del 2003 il presidente Bush ha invitato l’Office of National Drug Control a pubblicare un opuscolo destinato a tutti i cittadini statunitensi intitolato “Cosa gli americani devono sapere della marijuana. Fatti importanti circa la nostra meno compresa droga illegale”. Ma è accaduto anche in Nuova Zelanda, in Australia, nel Regno Unito, in Spagna, fino alla libertaria Olanda che guarda preoccupata – è scritto in atti ufficiali – “all’aumento nel numero di persone che chiede di essere curate per problemi di dipendenza da droga sviluppati in seguito all’uso di cannabis. Fra il 1994 e il 2004 il numero dei pazienti visitati per la prima volta per cannabis è passato da 1950 a 5.500. Ma tra il 2003 e il 2004 l’aumento è stato del 22 per cento. Nello stesso anno i ricoveri in ospedale per dipendenza e abuso da cannabis come seconda diagnosi è aumentato del 31 per cento”. Risé cita a modello la Francia e la campagna lanciata dal governo nel febbraio 2005 che ha coinvolto “televisione, radio e specialisti dei diversi settori della medicina per attivare in ogni ambito (dalla scuola ai consultori, dalle discoteche ai diversi luoghi di incontro dei giovani) per svolgere un’azione informativa e preventiva”. Azione che ha portato anche ad aprire dal gennaio 2005 in tutto il paese più di 250 cliniche di “consulenza alla cannabis”. Quando le informazioni corrette arrivano, il male può essere debellato. A dare fiducia a Risé sono gli Stati Uniti, nei quali, grazie al governo, è cambiata la percezione sociale sul fenomeno e “il consumo di marijuana è diminuito tra il 2001 e il 2006 del 25 per cento”. Con buona pace di Cancrini e dei molti miti dello star system italiano che non mancano di dedicare canzoni alla “Maria” o di presentarsi in pubblico con variopinte magliette “Legalize It”, esistono numeri e dati sufficienti per ritenere la situazione allarmante. Risé riporta anche i numerosi effetti nocivi della cannabis: schizofrenia, depressione, ansietà, psicosi, deficit cognitivi e mnemonici, difficoltà nel mantenere l’attenzione, rallentamento delle capacità di riflessione, ridotta espressività del linguaggio, compromissione grave della volontà e della affettività, apatia. Se non dovesse bastare, altre ricerche hanno mostrato come la cannabis faccia invecchiare precocemente. Secondo l’Onu “nel mondo attuale la cannabis è la droga illecita più prodotta e consumata”, ma quella che oggi è inspirata dai figli è molto diversa da quella che fumarono i padri: “La quantità di tetraidrocannabinolo (il principio attivo della cannabis) è passata in un pugno d’anni dal due al 20 per cento”. Secondo le statistiche in rapida crescita ci sono i consumatori giovanissimi, quelli al di sotto dei 15 anni, attratti anche da una “politica dei prezzi” che gli spacciatori hanno abbassato per far aumentare la domanda (non è, infatti, un mistero, che l’85 per cento di coloro che consumano le cosiddette “droghe pesanti” abbiano cominciato con le “leggere”). Di fronte a tutto questo l’Italia cosa fa? Sostanzialmente nulla. O se fa qualcosa, nessuno ne parla. Nel 2003 il maggior esperto di politica farmacologica italiana, Silvio Garattini, consegnò al Ministro della Salute Sirchia un documento allarmante il cui titolo era: “La cannabis non è una droga leggera”. Quel documento fu girato agli organi di stampa che lo ignorarono. Così come avevano fatto nel 1999 con la “Relazione al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze”, dove, in un allegato sulla cannabis, si evidenziava “come tra le vittime degli incidenti e degli scontri interpersonali con contenuto violento (risse) almeno il 50 per cento dei soggetti fossero sotto l’effetto di cannabis”. La firma era quella dell’allora ministro per la Solidarietà sociale, Livia Turco.