"Nel postmoderno i primi attori della guerra non sono gli Stati ma i popoli, il loro inconscio collettivo e la loro cultura, intesa in senso antropologico come sistema di valori di riferimento sociale e di interpretazione del mondo". Claudio Risé, psicanalista junghiano e polemologo, illustra questa tesi prendendo le distanze dalla spiegazione razionalista che vede la guerra come espressione degli interessi degli Stati. L'osservazione delle guerre d'oggi dimostra invece che esse nascono dal bisogno di popoli e nazioni di affermare la propria identità contro gli Stati che non la riconoscono. Le guerre della postmodernità scoppiano all'interno degli Stati nati dopo l'illuminismo, che malgrado si definiscano "nazionali" sono in realtà multinazionali, in quanto contengono una pluralità di culture nazionali diverse.
Nel mondo globale di oggi queste culture e nazioni, come prima quelle controllate dagli imperi coloniali, vogliono esistere come soggetti autonomi sulla scena mondiale dei mercati, delle informazioni, delle fedi. La guerra, manifestazione di forze psichiche operanti nella "vita incosciente comune, nella vita di sciame dell'umanità" (Tolstoj), non nasce dal calcolo, ma piuttosto da un'esperienza emozionale, oggi legata all'affermazione e al recupero dell'identità di un gruppo. E nel suo sviluppo si manifestano le forze eterne dell'inconscio collettivo, che Jung chiamò archetipi e che sovente sono raffigurate come dèi. Quegli stessi dèi della guerra che, presenti nelle antiche epopee e nelle saghe popolari delle culture più diverse e lontane, ancora oggi scuotono il mondo.