Opporsi all'espulsione dal corpo sociale e
superare la tendenza al separatismo, per integrarsi a pieno
titolo nell'universo maschile: è la proposta al mondo gay di
Claudio Risé, psicoanalista
« dal
volto umano
» , appassionato sostenitore del
recupero del senso di appartenenza al proprio
sesso.
«Come due zucche nuotano secondo
corrente
marce, ma unite per lo stesso picciuolo
in
fiumi gialli: loro facevano
i loro giuochi di carte e di
parole.
E tiravano contro le lune gialle
e si amavano
e non ci badavano,
rimasero uniti in molte notti
e
anche: quando c’era il sole.»
Bertolt Brecht, da Ballata
dell’amicizia, in Libro di devozioni
domestiche, 1964
Nel Suo ultimo libro Lei sembra
voler dispensare carezze ad ogni
tipo di maschio spingendosi a mostrare indulgenza anche verso
fenomeni a volte scabrosi a volte inquietanti (dall’uso di
biancheria intima femminile ai rapporti incestuosi e alle
relazioni adulto-bambino). È Lei, e con Lei la figura dello
psicoanalista, il «padre buono e saggio» della cui necessità
si fa promotore?!
Non so se sono
il padre buono e saggio, soprattutto, nella risposta alle
lettere del libro. Certo, è possibile che dia l’impressione di
dispensare carezze e forse le
dispenso, ma deliberatamente, perché una delle cose che mi ha
colpito di più in tale epistolario è il livello di angoscia
che molti mostrano per aspetti che possono diventare
«inquietanti» ma non lo sono affatto in partenza. Uno dei
punti centrali del mio modo di vedere è la consapevolezza che
noi viviamo sul seguito dell’universo sessuale della modernità
occidentale, caratterizzato da una forte «colpevolizzazione»
nei confronti di tutta una serie di forme di sessualità non
colpevolizzate né in altre epoche nello stesso Occidente né in
altre culture ancor oggi. È ridicolo costruire un vissuto di
colpa sul tipo di biancheria che uno voglia indossare; come è
disastroso criminalizzare la spinta sentimentale verso gli
adolescenti e pure verso i bambini, poiché si tratta di un
mondo affettivo che è sempre stato illustrato nella storia
dell’uomo (basta pensare ai miti) e non è un sentimento
necessariamente negativo o distruttivo. Tutto ciò che viene
bandito dalla coscienza e rimosso nell’inconscio dà il peggio
di sé diventando qualcos’altro. Nella risposta alle lettere
non mi pongo tanto come psicoanalista - poiché la psicoanalisi
ha a che fare con una relazione a due in un contesto molto
preciso; tuttavia, rispondo a richieste e problemi psicologici
anche con la mia esperienza di psicoanalista, quindi nella
consapevolezza che ogni aspetto umano cui non si dà spazio di
dialogo e comprensione nell’ambito della coscienza, viene
rimosso e a quel punto può diventare una mostruosità. Il mio
obiettivo principale con quelle che Lei ha chiamato «carezze»
è di convincere questi uomini che non sono dei mostri e che
neppure questi aspetti della loro affettività e della loro
sessualità sono di per sé mostruosi; possono diventarlo se,
invece di stabilire con essi una relazione amichevole, vengono
banditi.
A proposito di paternità, cosa
pensa di quei rapporti caratterizzati da una sorta di
«adozione» di giovani o giovanissimi eterosessuali (definirli
gay è senz’altro improprio, e il termine bisessuale lascia
intendere una complessità che non possiedono) da parte di
uomini gay per lo più maturi ? Non Le sembra che vi si
compiano tentativi di risarcimento e talora di cura a
vantaggio soprattutto dei ragazzi? Come se alcuni omosessuali
si facessero carico di far crescere
l’identità maschile di soggetti svantaggiati e spesso «senza
padre»? La mercificazione, che accompagna parecchi di tali
rapporti, copre un’opera di paradossale sostegno
del Maschile....
Provo una grande diffidenza e quasi
indifferenza per le etichette, tuttavia propenderei per una
base di bisessualità quale condizione di fondo che porti i
soggetti ad accettare tale adozione vivendone anche le
componenti sessuali. Dal punto di vista sostanziale, mi sembra
fuor di dubbio che nella gran parte di questi rapporti nel
giovane vi sia una ricerca di padre
e nell’adulto omosessuale un’offerta di
paternità. L’istinto di paternità è
un «istinto maschile», che si può vivere in modo concreto
mettendo al mondo dei figli, oppure a livello simbolico nel
rapporto con un giovane maschio da curare e da iniziare alla
maschilità. Considero, ad esempio, la nota Lettera dal
Carcere di Reading di Oscar Wilde per Lord Douglas un
grande testo di maschilità e di paternità. L’omosessuale che
ha scelto di non avere figli, non per questo non è padre,
molto probabilmente lo sarà e comunque può essere un
grande padre in un rapporto d’amore
con un giovane uomo, dove il fatto che passi o non passi
denaro è un aspetto del tutto secondario.
Lei tende a sdrammatizzare il tema delle
«perversioni», distribuendo assoluzioni sociologiche e
rassicurazioni psicologiche. Non crede, tuttavia, che si corra
il rischio di favorire l’approssimazione e la superficialità?
Facendo credere, per esempio, che tutti possano vivere le
potenzialità sessuali in modo «artistico» semplicemente
grattando la superficie del conformismo. Fare di sé
un’opera d’arte non è frutto di un
lavoro impegnativo in profondità? ed è davvero una meta alla
portata di tutti?! l’ambiguità non è qualcosa di diverso dalla
polivalenza?
Ciò mi sta più a cuore è testimoniare a
chi mi scrive e legge come, attraverso la costruzione di un
modello sempre più definito di «perversioni», la modernità
democratica occidentale abbia costruito un sistema di
controllo, di punizione e di costrizione - che Michel Foucault
ha chiamato la «società disciplinare» - probabilmente senza
precedenti nella storia umana, per lo meno nel nostro mondo.
Mi interessa perciò far capire che ogni operazione di diagnosi
e controllo punitivo delle «perversioni» non fa che estendere
questa terribile ragnatela. Uno dei fenomeni che mi hanno
colpito di più negli ultimi tempi è lo straordinario sviluppo
- con toni fortemente persecutori che hanno già fatto molte
vittime innocenti - del processo di identificazione delle
varie forme di pedofilia e molestie. Certamente, se Lei
chiede: siamo tutti capaci di fare dell’arte con il nostro
corpo e con la nostra sessualità? la mia risposta è:
sicuramente no! Sono convinto che non siamo tutti uguali e che
non abbiamo tutti le stesse chance di cavarcela nel difficile
compito di costruirci una libertà che un’intera civiltà ha
distrutto negli ultimi due secoli. Penso, però, che ci si
possa provare anche se i rischi sono molto alti, perché in
realtà i rischi sono molto alti comunque: chi cerca di
riconoscere e di esprimere il proprio Sé, ponendo in relazione
le proprie «perversioni» o particolarità, rischia la vita e
anche l’equilibrio mentale; ma li rischierebbe lo stesso se
rinunciasse a farlo e se vivesse passivamente il pregiudizio
sociale come quella verità che non è.
Attribuire all’Illuminismo e poi
all’industrializzazione la «colpa» della emarginazione delle
componenti «improduttive» della sessualità non è liquidare un
po’ sbrigativamente la questione dell’inquietudine sociale
relativa all’omosessualità nella storia? Prima di una certa
epoca, i gay sarebbero stati parte della più vasta comunità
maschile senza tanti distinguo. Ma non Le pare che l’ultimo
effetto, per il momento, del processo di identificazione della
minoranza omosessuale sia proprio la definizione di una
identità eterosessuale più specifica e autentica ? Non è
quindi solo questione di tessere o schieramenti, poiché
l’esigenza di formare ed elaborare un’identità eterosessuale
in termini individuali è uno dei vantaggi secondari
dell’autoaffermazione dei gay e delle
donne...
Non lo ritengo un
vantaggio perché mi sembra «costruito» su una falsificazione.
La mia opinione è che è esistito nella storia e ancora esiste
in altre culture (che non hanno conosciuto il nostro processo
di secolarizzazione e industrializzazione sfociato
nell’attuale società dei consumi) un campo maschile
unitario in cui le diverse
preferenze sessuali possono coesistere senza produrre quella
rigidità e unilateralità che a mio modo di vedere è anche
povertà di contenuti. Non credo che per la maggior parte delle
persone si possa distinguere con chiarezza tra omosessualità
ed eterosessualità. Il valore della coesistenza nel mondo
maschile unitario tra l’amore per la donna e l’attrazione per
il proprio sesso costituiva una grande ricchezza culturale e
spirituale non solo per la società ma anche per l’individuo.
La parzializzazione di identità per
cui qualcuno è chiamato fin dall’infanzia a scegliere se è
eterosessuale o omosessuale, e poi deve stare entro quei
binari rinunciando a tutto un mondo affettivo, pulsionale e
simbolico che solo adesso è diventato «opposto» ma fa sempre
parte del campo maschile, mi sembra uno dei disastri della
modernità occidentale.
Nonostante
l’apertura e persino la spregiudicatezza che Lei mostra nel
libro, si ha la sensazione che l’esperienza degli omosessuali
ne esca trascurata e spesso confusa con pulsioni parziali e
condotte secondarie o estemporanee. I gay sono stati
ricettacolo dei fantasmi di perversità proiettati dalla
collettività - e lo dimostra l’attuale redistribuzione fra i
maschi eterosessuali di quelli che un tempo erano considerati
«tratti distintivi» degli omosessuali (passività,
effeminatezza, narcisismo, impotenza, etc.). L’omosessualità
della persona omosessuale è però ancora un’area
cieca del pensiero dei maschi eterosessuali,
abituati a ritenere i gay la personificazione della
loro omosessualità come sono soliti
considerare la donna la personificazione del loro
femminile.
Come sono convinto che
la donna non è il femminile dell’uomo, così rivendico
l’alterità irriducibile dell’identità maschile, al punto che
oggi, quando una donna mi chiede una analisi, quasi sempre la
rimando a delle terapiste perché non mi ritengo in grado di
trattare la psiche femminile, che conosco per forza di cose di
seconda mano. Ritengo l’omosessualità parte integrante del
campo maschile, quindi non riconosco un’alterità così profonda
e irriducibile. Sicuramente nel libro c’è una minore
attenzione all’ambito omosessuale vero e proprio, rispetto
allo spazio concesso alla legittimazione di comportamenti
nomadici e di confine. Il fatto è
che questi ultimi costituiscono un nucleo molto particolare di
condotte e di forme affettive, più accessibili e significative
per il lettore medio della stessa rivista che ha ospitato la
mia rubrica di corrispondenza, disponibile ad essere
inquietato solo fino ad un certo punto. Ho dovuto tenerne
conto in un dialogo il più possibile ampio e credo che non
avrei potuto fare diversamente.
I due
sessi per comunicare devono recuperare la distanza di identità
differenti. Non vale anche per la comunicazione tra etero e
gay? Certo, riconoscendo la base
comune e quindi di essere rami della stessa
pianta. Non fare confusione, rispettare fisionomie e bisogni
specifici in una disgiunzione
inclusiva (e non esclusiva), non favorirebbe la
crescita di entrambi? Non c’è da arricchirsi? Lei stesso parla
di “profonde specificità” da non calpestare e invita a
chiamare le cose col loro nome. Non si rischia di soprassedere
sulla problematica rinviando ad una generica e un po’
massimalistica arte del divertimento tra gusti e appetiti?!
Sono del tutto d’accordo, sia
sulla distanza che sulla «disgiunzione inclusiva» come
finalità. Tuttavia, noi abbiamo ancora a che fare con una
disgiunzione esclusiva, poiché il
mondo gay è stato espulso dal mondo
maschile nella coscienza collettiva maschile e ha finito col
credere a questa separazione. Il primo obiettivo allora è
restaurare l’inclusione, cioè aiutare gli eterosessuali a
rendersi conto che non sono differenti dagli omosessuali e
viceversa, essendo fondamentalmente uniti dall’appartenenza di
genere (simbolica e istintuale). Quando avremo recuperato
tutto ciò (e mi pare sia un lavoro ancora da cominciare),
allora sarà importante tener presente che è la distanza a
consentire di vedere e di conoscere.
Il genere è più importante della preferenza
sessuale. Applicarsi alla seconda trascurando il primo è come
costruire una casa senza fondamenta. Si ha in effetti
l’impressione che molti gay «moderni» manchino di radici e si
collochino a mezz’aria sospesi in una dimensione virtuale o
velleitaria. Se però dal “gioco erotico” si passa al
progetto di vita sulla base
dell’orientamento sessuale, entrano in campo questioni
cruciali in termini sia individuali che sociali. L’identità
come «centro organizzatore» è tutt’altra cosa delle maschere e
delle identificazioni mutevoli. Si parla allora di amore,
unioni civili, diritti giuridici, eredità. È più difficile a
quel punto restare al riparo di una comprensione di massima.
Anche “gli altri” devono fare scelte. E Lei ?
Ritengo che in un campo maschile
ritrovato ci sia spazio per tutti i diversi progetti di vita
che gli uomini possono fare a seconda dei loro orientamenti
sessuali. Naturalmente, mi sembra quasi superfluo dirlo, il
progetto di vita di questi cittadini
deve essere riconosciuto e tutelato nella piena legittimità.
Il rischio di ogni progetto di vita, etero od omosessuale, è
sempre l’eccessiva semplificazione rispetto alla complessità
del soggetto, il cui rispetto assoluto d’altra parte ci
impedirebbe qualunque passo (dalla scelta della Facoltà
Universitaria a tutto il resto). Il successo del progetto si
gioca sul crinale tra il lasciare tutte le strade aperte, che
non ne consente la realizzazione, e il semplificare troppo,
che inesorabilmente taglia fuori degli aspetti della
personalità. Da questo punto di vista, mi pare che
l’omosessuale si trovi di fronte le stesse difficoltà del
cosiddetto eterosessuale.
C ’è
vita senz’altro in un progetto
condiviso da persone dello stesso sesso?! I più sono convinti
che un’unione eterosessuale, in quanto potenzialmente
riproduttiva, sia a priori positiva e portatrice di vita;
mentre un’unione omosessuale, in quanto essenzialmente non
riproduttiva, sarebbe in ogni caso connotata dalla sterilità o
addirittura dalla morte...
Basta pensare a tutta la ricchezza artistica,
affettiva, di immaginario erotico prodotta nella storia delle
relazioni omosessuali, per spazzar via questo dubbio! È un
pensiero tragicamente materialistico e
concretistico quello che identifica
la vita solo con la riproduzione e la biologia non
riconoscendo come produzione vitale la creatività e
l’affettività. È questa una delle peggiori conseguenze del
processo di secolarizzazione, cioè di separazione dell’uomo
dal sacro, che ha visto la Chiesa sequestrare la
res sacra facendone una
res ecclesiastica via via più
materialistica.
La psicoanalisi
ha smesso di parlare di omosessualità da qualche decennio,
dopo averne a lungo sparlato. A Suo parere la
sofferenza umana che attraversa
l’esperienza degli omosessuali trova sufficiente accoglienza
presso la classe dei terapeuti? Oggi non c’è il pericolo che
venga data per scontata, tacciata di anacronismo o resa
insignificante e banale? Molti terapeuti potrebbero essere
giudicati inadeguati per tale compito? E i terapeuti gay,
dichiaratamente tali, sono un problema ?
Il riconoscimento della sofferenza
e la capacità di attraversarla in tutto il suo spessore è il
problema centrale della psicoterapia e della psicoanalisi. La
sfida che si pone al terapeuta è comunque quella di osare
entrarci, starci, viverla con l’altro in tutta la sua
profondità e in tutta la sua, di solito apparente, per lungo
tempo mancanza di via d’uscita. Non tutti riescono a farlo,
naturalmente. Credo che nella psicoanalisi dovrebbe esserci un
aiuto in più a rimanere vicini alla sofferenza, perché la
psicoanalisi praticata correttamente ascolta l’inconscio del
paziente che continua a riportare quella sofferenza che pure
si preferirebbe ignorare. Non sta a me giudicare l’adeguatezza
di altri terapeuti, senza dubbio si tratta di una delle
professioni più difficili proprio per il continuo contatto con
la sofferenza e con la morte, un’esperienza limite. Mi sento
di poter dire che nella formazione l’apprendimento delle
tecniche copre spesso la questione cruciale della capacità del
terapeuta di «stare» nel dolore, il che implica l’accettazione
delle proprie sofferenze. Quanto ai terapeuti gay, penso che
in qualche caso possa trattarsi di una qualifica preziosa, per
i molti gay che non accederebbero altrimenti alla terapia e
perché la vicinanza, fino ad un certo punto, può contribuire a
creare un rapporto terapeutico. Nella mia visione del campo
maschile come unitario, ritengo però interessante per un gay
l’esperienza di una relazione profonda maschile con un
terapeuta che non è gay o che non ha impostato in tal modo la
propria vita.
Che cosa ha tratto dai
suoi pazienti omosessuali? Ciò che conosce dei gay, Le deriva
più dalla vita o dalla professione? Che idea se n’è fatto e
cosa si sentirebbe di criticare?
La mia conoscenza
dell’omosessualità inizia e si sviluppa anzitutto nella vita.
Dai miei pazienti omosessuali e da coloro che non si
riconoscevano come tali o non prevalentemente, ho ricavato - e
lo si capisce anche dal taglio dato al libro - soprattutto la
paura dell’omosessualità, l’idea di
qualcosa che può distruggere e un vissuto di minaccia
incombente. Se ho sottolineato un atteggiamento non
demonizzante e principalmente rassicurante, è proprio perché
nella paura non costruiamo niente. Dobbiamo cacciare la paura,
guadagnare la libertà e solo allora approfondire le
specificità delle diverse tendenze. In tutta la mia opera è
presente un’implicita critica della propensione dell’ambiente
gay a separarsi, che mi appare come
autodistruttiva e suicida, nonché fortemente dannosa anche per
la società in generale e il campo maschile in particolare,
perché lo si priva di un patrimonio di energie e di
affettività di cui ha assolutamente bisogno e che gli
appartiene.
Il problema del
riconoscimento dell’altro sesso è trasversale e anche i gay
devono ammettere la necessità della relazione con la donna,
benché in modo diverso dagli eterosessuali. Tuttavia,
altrettanto importante è riconoscere il significato della
relazione col proprio sesso. Non va forse detto a chiare
lettere che il pene nutre?! Non di
solo seno e latte vive l’uomo... Ogni maschio ha bisogno di
essere nutrito da altri maschi; è un bisogno naturale,
autentico, vitale. Non crede che questa «verità» potrebbe
cambiare il giudizio sulle varie espressioni
dell’omosessualità, portando a considerarla un
patrimonio antropologico e a
restituire all’amicizia il valore
sociale che le spetta?!
C’è una
tribù americana (oggetto di un libro intitolato I
suonatori di flauto) in cui i fanciulli ad una certa
età vengono tolti alle madri e portati dagli uomini nel loro
villaggio, ove vengono addestrati a succhiare il pene e a bere
lo sperma, sottolineandone la
bontà e l’alterità rispetto al
latte della madre. Si tratta di una risoluzione un po’
concretistica, ma il problema simbolico sottostante è lo
stesso cui io ho dedicato vent’anni del mio lavoro e
praticamente tutti i miei libri: la necessità, vitale per
l’uomo e per la società, di riconoscere il valore di
nutrimento del Maschile, del Fallo
inteso come uno dei due principali simboli che hanno dato
luogo alla storia umana. Una delle caratteristiche del
maschile è la donazione gratuita - lo sperma viene donato, non
ci si attende alcun ritorno - l’uomo non è conservatore nella
sua intrinseca natura. Del campo del maschile ci si deve
nutrire perché il dramma della modernità è proprio
l’interruzione dell’iniziazione al maschile, con il
disconoscimento del valore di nutrimento spirituale e
culturale del Fallo. Dobbiamo
ritrovarlo prima di tutto dentro di noi e poi
riprodurlo-riportarlo nel sociale, poiché una società che non
riconosce la sacralità del Fallo è
una società perduta.
Mattia Morretta
Libri di C. Risé sull'identità
maschile :
Parsifal. L'iniziazione dell'uomo
all'amore, Red Edizioni, Co, 1988
Il maschio selvatico. Ritrovare la forza
dell'istinto rimosso dalle buone maniere, Red, Co, 1993
Maschio amante
felice, Frassinelli, Mi, 1995
Da uomo a omo.
Maschi che scrivono allo psicoanalista,
Sperling
& Kupfer, Mi, 1998
Internet :
www.maschiselvatici.it